lunedì 3 agosto 2009

SULL’AFGHANISTAN, SU OBAMA
E SU CIO’ CHE SI DEBBA FARE



di Raffaele D’Agata*

03/08/2009 - I contributi di riflessione che hanno in parte criticato la mia analisi, dal mio punto di vista, l’hanno anche integrata, e mi permettono ora di suggerire una precisazione. Se pretendere il ritiro immediato delle nostre truppe dall’Afghanistan - cioè - non è sufficiente (come mi sembra), ciò non significa che non possa essere intanto e comunque necessario nelle circostanze date. La parola d’ordine dell’immediato ritiro delle truppe, dopotutto, è quella che fino a questo momento riesce a esprimere nel modo migliore un’esigenza essenziale circa la questione dell’intervento in Afghanistan, cioè l’esigenza di una discontinuità che sia una critica radicale e una completa rottura rispetto a tutto ciò che è stato fatto finora in relazione a quello scenario (cioè non soltanto dal 2001, ma in una prospettiva pluridecennale).

Sottolineo tuttavia che c’è una parte positivamente alternativa che è altrettanto essenziale. Ne riassumo nuovamente i termini, sforzandomi di precisare alcune cose come mi consta e come mi riesce. Si tratta di agire con decisione e contemporaneamente su tutti gli elementi di un intreccio complesso (fatto di armi, droga, banche, finanze, e frodi), che è stato costruito nel corso di oltre trent’anni mischiando petrodollari sauditi, narcodollari gonfiati e moltiplicati lungo la via che dal Passo di Khyber porta a Karachi e di qui a Londra e Zurigo e Chicago, titoli del Tesoro americano, e politica di potenza sostenuta dalle lobbies che hanno influenzato la politica di Washington negli ultimi decenni. Si tratta quindi ora, in Afghanistan, di rompere l’alleanza con alcuni signori della guerra e dell’oppio vestiti da gentiluomini democratici contro altri loro colleghi vestiti a volte da islamisti - ed è anche chiaro che questo significa aprire il problema della legittimazione della presenza internazionale in Afghanistan, e dei rapporti con le autorità stabilite, sia prima che dopo le elezioni che in qualche modo stanno per svolgersi in quel paese. Si tratta poi di intervenire con massicci investimenti sulla struttura del mercato per quanto riguarda il problema chiave della vita materiale dell’Afghanistan, cioè la droga e il suo indotto in termini di potere, e quindi di consenso ovvero di sopraffazione. Su questo piano, l’intervento internazionale dovrebbe essere riconoscibile come l’intervento di un predominante e determinante consumatore collettivo che modifichi radicalmente il mercato in funzione di una miscela di distruzione, uso farmaceutico, e pratiche attentamente controllate di abolizione del proibizionismo (come arma finale per abbattere il potere mondiale dei narcotrafficanti).

A questo punto si riscontra però una difficoltà, cioè che le forze del rifiuto (e della possibile alternativa) sono oggi disperse, frammentate, quasi del tutto prive di strumenti, di appigli e di punti di riferimento reali (in termini di potere effettivo, ovvero di manifestazioni in qualche modo positive e “utilizzabili” del potere) tanto in patria e quanto su scala mondiale. Su questo terreno, non c’è attualmente nulla di più avanzato della presidenza Obama (se si eccettua molta parte dell’America Latina, che però, almeno per ora, ha da occuparsi prevalentemente di se stessa); e questo dice davvero molto. Ma Obama è condizionato; gli Stati Uniti stessi sono condizionati in questa fase epocale di crisi (che è anche crisi della loro centralità così come finora la abbiamo conosciuta): e i due aspetti sono correlati. Forse, ciò che Obama vorrebbe circa l’Afghanistan non è ciò che Obama può, nei suoi rapporti con il Congresso, con le lobbies, e insomma con gli equilibri della sua amministrazione.

In altre parole, pur essendo quanto di più avanzato esista oggi sul terreno del potere a livello mondiale, l’amministrazione Obama non ha da sola gli strumenti per agire, come è necessario, contemporaneamente e con decisione, su tutti gli elementi dei complessi intrecci che trent’anni di presunta globalizzazione (al di là del fumo delle belle favole costruite intorno a questo termine) hanno costruito e consolidato. Ma il problema rivoluzionario che abbiamo di fronte non è altro, né meno, di questo. Ed è un problema che richiede, per cominciare ad essere affrontato, alcune condizioni essenziali. Innanzitutto, cioè, una forza rivoluzionaria di governo, che è tutta da costruire (o, in Italia, da ricostruire), superando le reciproche preclusioni che tuttora sussistono da ogni parte.

Non cioè una forza di pura opposizione o di puro rifiuto, ma capace di governare attivamente le situazioni concrete non per adattarvisi ma per rovesciarle. Se una tale forza esistesse, saprebbe forse come sostenere Obama contro i suoi avversari interni, come affermare la rottura e la discontinuità con il passato della nefasta impresa afghana e insieme come non lasciare le donne e gli uomini dell’Afghanistan, che vogliono vivere liberi dai loro carnefici interni, al loro destino: anche se, ovviamente, non più (come finora spesso è accaduto) esercitando effettivamente il mestiere di questi “per errore”.

*docente di Storia Contemporanea all’Università di Sassari


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