giovedì 9 aprile 2015

I compiti di un Risorgimento Socialista: dall'unità sindacale una spinta verso una nuova Sinistra socialista.

di Manfredi Mangano

Sono passati pochi giorni dal grande convegno che il dissenso socialista ha organizzato presso l'Auditorium dei Frentani: ho avuto l'onore di essere nel banco della Presidenza, e da lì di poter ascoltare una grande parte degli interventi, di assoluto spessore, che si sono susseguiti. Avrei voluto dire alcune cose, ma dovevo ripartire e molto di quello che immaginavo di poter affrontare era già stato detto con assoluto spessore da tanti bravi relatori.

A posteriori, ho avuto modo di riflettere sulle mie idee, e anche di precisarle alla luce del dibattito che è stato scatenato dai tentativi dei nostri avversari di schiacciare tutto l'evento su una specie di "anticipo di scissione" fatto dai "socialisti massimalisti che vogliono andare con Landini".


Ho quindi sentito il bisogno di riprendere in mano le quattro idee che avevo in mente e precisarle, alla luce di questo tema. Voglio subito sgombrare il campo da una opzione: non dovremmo avere l'ambizione di portare nella Coalizione Sociale di Landini la cultura socialista.
Il primo motivo per cui non dovremmo è anzitutto che non è affatto detto che la Coalizione Sociale divenga un nuovo Partito, così come non è affatto detto che il suo obiettivo sia partecipare alle elezioni a breve termine.
Questo provocherà sicuri  mal di pancia tra capi e capetti della sinistra ansiosi di farsi trascinare in Parlamento dal carisma del sindacalista della FIOM, e di sicuro creerà un certo scoramento tra i militanti delle varie SEL, PRC, Altra Europa e, in piccolo, anche tra tanti del nostro PSI, che sperano in una leadership credibile: tuttavia l'operazione Coalizione Sociale mi pare vada nascendo con due chiari orizzonti, che sono per tutti coloro che vogliono ricreare una sinistra seria del tutto imprescindibili.

Il primo orizzonte è che oggi abbondano le strutture, ma non coloro che dovrebbero riempirle; a ogni nuova aggregazione della sinistra ( e, non a caso, i primi sondaggi lo certificano anche per l'ipotetico "partito di Landini") a rispondere al richiamo della foresta sono sostanzialmente spezzoni di ceto medio, studenti e qualche precario politicizzato: una fetta estremamente piccola di società, che non riesce nemmeno volendo a comunicare con quegli ampi settori di disagio sociale che pure vorrebbe rappresentare. La Coalizione Sociale nasce con l'idea di aggregare più realtà possibili su battaglie condivise all'interno della popolazione, che favoriscano una riattivazione del coinvolgimento e della partecipazione più ampia di quella che si mobilita, stancamente, a suon di appelli degli intellettuali. Come tale, che nasca o meno un partito politico, questo non sarà per l'immediato futuro: sarà dopo che nella società italiana, nelle classi sociali italiane, si sarà realizzato di nuovo un minimo di radicamento, si saranno individuati degli interlocutori e si sarà stabilito un legame con loro. E questo è fondamentale per non evocare di  nuovo in campo i fantasmi degli Arcobaleni passati.

Il secondo orizzonte è che, per rispondere al modello socio-economico che ci propone il renzismo, il vecchio blocco della Sinistra non basta più. E questa è forse la consapevolezza più rivoluzionaria del progetto di Landini, e quella in cui noi Socialisti siamo chiamati a giocare un ruolo potenzialmente cruciale, se sapremo proporci con intelligenza e caparbietà.
Il tradizionale blocco politico su cui il centrosinistra ha basato la sua fortuna, il blocco del lavoro dipendente delle grandi realtà industriali unito al lavoro pubblico, e a rilevanti settori di pensionati, è oggi del tutto disarticolato: in larga parte, le componenti più progressive, o dinamiche, di questo blocco sono state o assorbite dalla protesta politica o antipolitica, o cooptate dal lato modernizzatore del renzismo. La parte più larga di questo blocco, quella che possiamo senza dubbio definire come "conservatrice" e che è rappresentata dal lavoro pubblico e dai pensionati, ha in larga parte accettato passivamente l'avvento del renzismo, dopo gli attacchi frontali che ha fronteggiato negli scorsi anni: per molti di loro, lasopravvivenza è affidata alla solvibilità dello Stato, e la prospettiva di un Governo in grado di garantire la stabilità del Paese dopo i rischi di collasso berlusconiani e le minacce di troika montiane viene prima del contrapporsi alla svolta liberista renziana. Le frange che si ribellano sono quelli che, rispetto alla maggioranza, subiranno più direttamente gli effetti dei tagli e della nuova organizzazione del lavoro: si tratta però di gruppi residuali, destinati alla sconfitta per il loro isolamento all'interno della loro stessa classe / categoria di riferimento o all'interno della società in quanto tale (la rabbia dei docenti per l'avvento dei presidi-manager non potrà resistere a lungo, per dire, stretti come sono tra quanti sceglieranno di "collaborare" col nuovo ordine per avere gli agognati e a lungo solo sognati scatti di carriera, tra la mobilità geografica e la fine delle supplenze, e l'immissione in ruolo di nuovi giovani o precari storici, sensibili alla retorica della "fine dell'apartheid"). Non è un caso che Carla Cantone e lo SPI, prima sostenitrici aperte di Cuperlo, al momento dello sciopero generale siano state la categoria più timorosa di rompere col Governo, alla faccia della pseudovulgata giornalistica sulla CGIL ostaggio dei pensionati nemici di ogni innovazione.

In questo schema di resa generale, la FIOM dovrebbe essere tra i primi candidati a rappresentare la parte "moribonda" dell'industria del Paese. Del resto, a lungo abbiamo favoleggiato di quanto fossero dinamici gli operai del Nord Est, ansiosi di diventare essi stessi imprenditori, e altrettanto a lungo Cremaschi ha opposto una rabbiosa resistenza a qualunque aggiustamento strutturale dell'economia italiana. Quella della FIOM sembrava la storia malinconica di un dinosauro legato alle grandi fabbriche FIAT e in via di estinzione almeno dalla marcia dei 40.000, solo questione di tempo.

Nel tempo, però, la FIOM ha attraversato una evoluzione cruciale: al di là della presenza di frange sindacali dure e antagoniste, o viceversa dei legami troppo stretti che, per formazione, alcuni gruppi mantengono con l'arcipelago delle varie formazioni della sinistra "a sinistra del PD", la FIOM oggi rappresenta in maniera decisiva segmenti di una "aristocrazia industriale", di quelle tante aziende che in questi anni hanno puntato sull'export e sull'innovazione. Dai distretti del Piemonte a quelli dell'Emilia Romagna, dai circuiti internazionali di subfornitura alle grandi aziende che in questi mesi e anni sono passate in mani straniere, non solo la FIOM è spesso il sindacato egemone, ma anche quello che realizza coraggiosi accordi di ristrutturazione (pensiamo alla Valle del Packaging in Emilia, o alla Ducati col gruppo Volkswagen). Il sindacato dei metalmeccanici è stato costretto, a livello aziendale come nazionale, a confrontarsi con un mondo di imprenditori a cui serve un "quid" in più per fare una scommessa di innovazione sul futuro: da qui, arrivano le aperture significative della FIOM stessa sui turni, sulla legge per la rappresentanza, fino alla cogestione.

Questo mutamento strutturale ha reso possibile alla FIOM evitare quella chiusura nell'angolo a cui avrebbero voluto costringerla i governi Berlusconi: il loro tentativo di privilegiare l'asse con la CISL nasceva dalla tradizione "americana" del sindacato cattolico, che privilegia ai diritti esigibili le concessioni contrattuali, alla contrattazione collettiva quella aziendale e alla rappresentanza generale del mondo del lavoro la tutela dei propri iscritti, e dalla sua consolidata abitudine all'interlocuzione con il mondo moderato e con l'imprenditoria, nel nome di una armonia di fabbrica che permette migliori risultati, e quindi migliori condizioni anche per i lavoratori. 
Questo assetto, e la prevalenza della CISL nelle fabbriche del Nord e Nord Est bianco, garantiva al blocco berlusconiano non solo un "piede" nel mondo del lavoro, ma anche un appoggio importante nella gestione della prima fase di internazionalizzazione globale delle imprese italiane, giocata sul combinato tra delocalizzazioni produttive e flessibilizzazione della forza lavoro: una svalutazione interna, di risposta all'impossibilità di una svalutazione esterna, che ha assicurato crescita economica e disoccupazione contenuta fino all'esplodere della crisi internazionale, al prezzo di un aumento esponenziale della disuguaglianza.
Questo modello avrebbe potuto funzionare, e diventare egemone, combinato con la mobilitazione in senso xenofobo del lavoro dipendente da parte della Lega, se nel frattempo fosse stato accompagnato da una decisa azione di sostegno alla riqualificazione e riconversione dell'offerta verso settori ad alto valore aggiunto: troppo costoso economicamente e difficile tecnicamente per il sostrato di piccola imprenditoria su cui si fondava il blocco berlusconiano. Abbiamo così assistito, negli anni, all'involuzione del blocco sociale berlusconiano da potenzialmente "innovativo" in senso reaganiano-thatcheriano a sempre più reazionario e conservatore: il liberalismo della prima Forza Italia, che presupponeva industrie dinamiche e pronte a investire aggressivamente, cedeva il posto a un conservatorismo protezionista, volto a proteggere dalla concorrenza internazionale le fragili manifatture di basso contenuto tecnologico.

Quando la crisi è esplosa, molte di queste imprese sono fallite in pochissimo tempo, travolte dalla stretta del credito e dal crollo della domanda mondiale: si è affermata una seconda generazione di imprese internazionalizzate che hanno avuto successo NONOSTANTE la crisi, NONOSTANTE il blocco del credito e anche NONOSTANTE il precariato, perchè hanno investito su prodotti e filiere innovative, e internazionalizzato fortemente la propria catena del valore senza rinunciare alla qualità (e, quindi, a impianti di produzione specializzati collocati nel nostro Paese, ad elevata tradizione artigianale). Al contempo, l'Italia industriale è diventata terra di conquista, in molte sue declinazioni di pregio ora in difficoltà, per grandi gruppi cinesi, francesi, tedeschi (al punto che l'Italia del Nord-Est è oggi un tassello cruciale della global supply chain, della rete mondiale di fornitori, tedesca, almeno laddove il resto del Paese è concorrenziale rispetto alla Germania).

A queste realtà internazionali o internazionalizzate, un sindacato corporativo che difende i propri iscritti fa comodo esclusivamente se l'ottica in cui muoversi è quella dello spezzettamento di un gruppo o di uno smantellamento parziale delle sue attività: se si investe in una ottica di conquista del mercato, o viceversa di ampliamento dei propri mercati, allora quello che serve è un sindacato che sappia avere sui lavoratori una "egemonia" potenziale più ampia. La FIOM, in molti casi già egemone in queste fabbriche per via della subcultura rossa locale, ha ricevuto una spinta ulteriore sia dal sostegno all'internazionalizzazione dato da molte amministrazioni locali di centrosinistra, sia in generale da questa sua maggiore capacità di rivolgersi al complesso dei lavoratori, apparendo meno compromessa con l'azienda e più determinata a difendere i diritti e le posizioni: questa sua maggiore credibilità l'ha resa, nel tempo, il punto di riferimento sindacale per realtà industriali dinamiche e innovative, quelle che oggi in moltissimi casi "tirano la carretta" del sistema Italia, continuando a competere sui mercati nonostante il colpo enorme subito dalla nostra produzione industriale.

La FIOM, tuttavia, da sola non può reggere il peso di questo scontro: il suo peso sociale al di la del mondo metalmeccanico rimane oggi egemone solo rispetto a un mondo fortemente politicizzato, quel blocco di ceto medio riflessivo che sempre si accompagna alle variegate formule politiche della sinistra-sinistra, dai centri sociali ai professori.
La FIOM, da sola, non ha la forza di egemonizzare la CGIL, e di riflesso ovviamente nemmeno di egemonizzare il mondo del lavoro: questo lo ha ben capito Susanna Camusso, quando ha richiamato Landini a tenere la FIOM nei binari dell'unità sindacale, faticosamente riconquistata con la UIL di Barbagallo.

L'asse (socialista, nonostante quello che possano pensare i vari astiosi Del Bue e Nencini) tra la CGIL della Camusso e la UIL di Barbagallo è la notizia più dirompente, per il mondo del lavoro, da anni a questa parte. Cooptare la UIL assieme alla CISL in un fronte sindacale è stato il leit motiv dell'azione politica di Sacconi e degli altri ex socialisti passati a destra: prima che gettasse la maschera, il ministro oggi in NCD si era prodigato a parlare di cogestione e di Statuto dei Lavori.
Rispetto alla CISL, anche la UIL manteneva un approccio di tipo "generalistico" ai problemi del mondo del lavoro, similmente alla CGIL: dal sindacato rosso era però distinta da una impostazione che, ai problemi "di classe", privilegiava un profilo legato alla difesa dei consumatori e alle battaglie sul costo della vita. Da questo punto di vista, una interlocuzione con un governo che poteva sembrare amico era certo attraente, anche considerando che sia CISL che UIL hanno investito molto in questi anni negli enti bilaterali e nella formazione, settori su cui il governo e gli enti locali mantengono un forte potere di ricatto.
L'incantesimo, tuttavia, si è già rotto anni fa, con la UILPA e la UILCA che per prime hanno incrinato il fronte pro-governativo all'interno della UIL: l'ascesa della segreteria Barbagallo ha orientato ( per ora ) definitivamente la UIL verso un rinnovato asse con la CGIL, che in occasione dello sciopero generale ha mostrato una elevata capacità di fare egemonia sul mondo del lavoro: che si prenda il dato delle organizzazioni datoriali (60% di adesione) o quello sindacale (80%), UIL e CGIL aggregano comunque circa il 20% dei lavoratori italiani, a fronte peraltro di un tasso di fiducia complessiva che secondo i sondaggi  non supera il 15%. Un chiaro indice del fatto che il mondo del lavoro è in forte fermento e che, nonostante la diffidenza degli italiani verso strutture viste comunque come compromesse, una posizione chiara e aperta di sfida ai trend socio-economici dominanti viene premiata.
CGIL e UIL hanno visto una convergenza (estesa stavolta anche alla CISL) sulla richiesta di nuovi strumenti universalistici di welfare, sostanziati nella proposta di legge sul reddito minimo garantito ( un sussidio contro la disoccupazione e la povertà erogato alle famiglie e condizionato all'attivazione tramite lavori socialmente utili o offerte di lavoro).
Qui emerge una prima distanza con la FIOM, che ha invece sposato la piattaforma più movimentista del "reddito di dignità", sostanzialmente un reddito di cittadinanza (un reddito dato a tutti i residenti, non condizionato e individuale, slegato dalla ricerca di lavoro): da UIL e CGIL, la FIOM è parzialmente separata anche rispetto agli strumenti di lotta, referendum contro proposta di legge di iniziativa popolare.

Qui, e finalmente arrivo al dunque, compagni, sta il ruolo del Risorgimento Socialista: non fare una corrente moderata di una coalizione di estrema sinistra, ma fornire a chi si oppone all'agenda politica di Renzi gli strumenti culturali atti a capire che 

1) l'unità del sindacato è condizione essenziale per la difesa e il rilancio del mondo del lavoro in Italia

2) gli elementi più avanzati del sindacalismo tradizionale possono e devono interloquire con gli elementi più avanzati del mondo imprenditoriale, ponendo al contempo allo Stato e agli enti locali la questione che non possono continuare ad abdicare al proprio ruolo; imprenditori e lavoratori, uniti, devono e possono ottenere nuove politiche industriali, programmazione, promozione dell'export, contratti di filiera (l'unica seria alternativa all'impossibile contrattazione aziendale).

3) al contempo, l'alleanza tra settori tradizionali (lavoro dipendente e industria innovativa), non basta più a rappresentare il catalizzatore di un cambiamento politico rivoluzionario in questo Paese: serve rivolgersi a quel mondo sommerso, umiliato, di precari ad alta qualificazione e di lavoratori scarsamente qualificati e impiegati a nero, di soggetti sociali che vivono in zone degradate, di famiglie povere, di partite IVA schiacciate dalla concorrenza, dalle tasse e dall'assenza di servizi, che secondo gli studi di un sociologo come Emanuele Ferragina costituisce oggi la "maggioranza silenziosa" del Paese. Una maggioranza demografica che però non si tramuta in maggioranza politica perchè il peso specifico di queste classi sociali è diluito tra l'antipolitica (Grillo, Salvini) e l'astensione: ceti sociali a cui la sinistra tradizionale di matrice PCI non ha mai voluto guardare, e che hanno trovato cittadinanza politica, forse, solo in movimenti populistici e leaderistici, a matrice anche clientelare (il PSI di Craxi, al sud per i marginalizzati e al nord per l'imprenditoria e l'artigianato non convenzionali; Forza Italia, il vero contenitore degli "esclusi" dalle reti di socializzazione; Grillo e la Lega). Si tratta di classi sociali che sono, per vocazione economica, vicine alle nostre parole d'ordine: ma che la sinistra ex PCI ed ex DC non può e spesso non vuole nemmeno intercettare, e che sono cresciuti lontano dai punti di riferimento culturali e di aggregazione della sinistra, abbandonati a se stessi e facile preda della rabbia populista.

Nessun partito e pochi interlocutori sindacali l'hanno capito: salvo, appunto, Landini.
E in questo senso è interessante la sua opzione politica: in questo senso, peraltro, gli serve la cultura socialista, nella sua opzione politica. In questo senso, il matrimonio si dovrà fare, pena la sconfitta di tutti: la sconfitta del Socialismo italiano, oramai privo di insediamento sociale e confinato a essere un doppione di Scelta Civica (non quella di Monti, ma quella della Giannini e dell'inglorioso 0,7%); la sconfitta di una sinistra anti-PD incapace di uscire dal suo steccato naturale di lavoro politicizzato e ceto medio riflessivo.
Sarà un matrimonio, tuttavia, da farsi al momento giusto e nelle forme giuste: non l'adesione alla spicciolata di uno spezzone di socialismo a una ingroiata fuori tempo massimo. Ma un lavoro politico serio, di radicamento sul territorio, di una opzione politica socialista:  che miri a conquistare il PSI, e a renderlo partecipe di un processo costituente della sinistra, come garante di questo genere di istanze politiche e sociali. E che al contempo, in autonomia, sia soggetto partecipe del dibattito politico attorno all'individuazione e creazione di un nuovo blocco sociale della sinistra.

Se son rose e garofani fioriranno: questa è la portata, epocale, del nostro compito. Dare alla sinistra, tutta, la consapevolezza di cosa può fare, fuori da inutili velleitarismi e da subalternità culturali, per inceppare una volta per tutte il neoliberismo strisciante, feudale e autoritario che avanza nel nostro Paese.

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