di Anna Germoni (news.panorama.it)
L’ennesimo cazzotto a Giovanni Falcone.
Nemmeno di fronte alla morte, si fermano gli attacchi e le polemiche. Si
specula, si distorce, si spiega il suo nome per una manciata di voti.
Perché non parlare di programmi, di piattaforme, di riforme, di
contenuti del suo movimento? No, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia, non si arresta di fronte a nulla. Eppure di motivi per stare in silenzio ce ne sarebbero: come lo scontro Orlando-Falcone, che culminò con l’ennesimo calvario del giudice di doversi difendere davanti al Csm. E Leoluca Orlando è anche uno dei primi firmatari di quel movimento di Ingroia. E allora diventa imbarazzante, non ricordare la storia.
Nell’agosto del 1989 inizia a collaborare con i magistrati il mafioso Giuseppe Pellegritti,
fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe
Fava rivelando al magistrato Libero Mancuso di essere a conoscenza, di
fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre.
Mancuso
informa subito Falcone, il quale interroga il pentito il 17 agosto. Il
giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta
istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone
spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo,
Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere
di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio
Mattarella. Il 4 ottobre, Falcone dopo due mesi di indagini, appurando
la sua totale inaffidabilità, firma un mandato di cattura per
"calunnia continuata" contro Pellegritti. È una reazione dura ma
necessaria.
Subito si scatena la canea contro Giovanni Falcone. La versione corrente è che il magistrato vuole proteggere Andreotti e Lima, cioè il potere. Leoluca Orlando Cascio dichiara guerra a Falcone. E proprio da una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 il sindaco di Palermo lancia un’accusa gravissima: il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene «chiusi dentro il cassetto».
A questa denuncia si associano gli uomini del movimento La Rete: Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando Dalla Chiesa.
In particolare si fa riferimento a una serie di documenti, otto scatole
sigillate negli uffici giudiziari e a un armadio pieno di carte,
lasciato da Rocco Chinnici. Galasso, Mancuso e Orlando fanno esposto al
Csm, l’11 settembre 1991. L’avvocato Giuseppe Zupo, avvocato di parte
civile della famiglia Costa, recapita, sempre al civico del Palazzo dei
Marescialli, due memorie, proprio su questi otto pacchi, sottolineando
“il mancato esame… e di doveri trascurati”.
Falcone ormai è sotto tiro. E anche i giornali intraprendono una battaglia di fuoco tra di loro. La Repubblica, del 20 maggio 1990, titola un’intervista di Silvana Mazzocchi a Falcone, con I nomi, altrimenti stia zitto…,
dove il giudice replica:” Se il sindaco sa qualcosa faccia nomi e
cognomi, citi i fatti, si assuma tutta la responsabilità di quello che
ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli
interessati…”. Il sindaco di Palermo ribatte attraverso L’Unità del 14 agosto 1991, a firma di Saverio Lodato, Indagate sui politici, i nomi ci sono.
Per
un anno Leoluca Orlando Cascio, come un martello pneumatico, bombarda
Falcone con le stesse accuse. Lo fa con ogni mezzo: interviste su
giornali, tv e conferenze stampa. Intercede anche Cossiga, ma il sindaco
di Palermo non si placa. Il capo dello Stato allora il 16 agosto 1991
scrive una lettera al Guardasigilli Claudio Martelli e ne manda copia al
presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno affinché sulla “già
nota teoria di Orlando”, “venga aperta un’inchiesta affidata
all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”. (Leoluca Orlando
Cascio, recentemente ha dichiarato di non pentirsi della polemica con
Falcone e che “oggi dichiarerebbe le stesse cose”).
Il
Csm, dopo l’intervento di Cossiga, l’esposto di Galasso, Mancuso,
Orlando e dell’avvocato Zupo, convoca Falcone. Ormai non si contano più
le sue audizioni dentro al Palazzo dei Marescialli. E’ il 15 ottobre
1991 quando depone davanti al Csm, in un’udienza riservata. Ecco che
cosa Falcone dichiara nel verbale (il n. 61):
«Se
c’è stata preoccupazione, da parte nostra, è stata proprio quella di
non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla
mafia… Adesso non si parla di prove nel cassetto perché i cassetti sono
stati svuotati. Essere costretto a scrivere all’Unità che non è certo
carino scrivere – dopo che si presenta questo memoriale - Falcone
preferì insabbiare tutto. Quando nel corso di una polemica vivacissima
fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di
Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”,
ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco
riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di
cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che
nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli
appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad
imperare, sottobanco, in queste vicende. Difatti sono stati arrestati
non solo Ciancimino, ma anche Romolo Vaselli, e Romolo Vaselli è il
factotum di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività
imprenditoriali. Devo dire che, probabilmente, Orlando e i suoi amici
hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività
amministrativa del comune un mandato di cattura che, in realtà, si
riferiva a una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri,
molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo.. la Cosi e
la Sico (due imprese romane n.d.r.) durante la gestione Orlando… quegli
stessi appalti che le imprese di Ciancimino si sono assicurati durante
la gestione Orlando. La Cosi e la Sico, due imprese, che erano Cozzani e
Silvestri che si trovavano a Palermo con tutte le attrezzature,
materiale e con il personale umano di Romolo Vaselli, che è un
istituzione a Palermo, il conte Vaselli”.
Poi Falcone si sfoga: «Non
si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura
del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è
l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri
colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è
per adesso a Palermo».
Questo diceva Falcone. Dopo la sua morte fu Ilda Boccassini, senza tanti giri di parole, a denunciare: “Né
il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno
politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che
comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole
secondo la convenienza del momento”.
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