mercoledì 14 ottobre 2009

GIUGNI: ''LA POLITICA E' UN FARE PER GLI ALTRI, PER I PIU' DEBOLI, PER I LAVORATORI''

GIUGNI: ''LA POLITICA E' UN FARE PER GLI ALTRI,
PER I PIU' DEBOLI, PER I LAVORATORI''
di Rodolfo Ruocco

14/10/2009 - Minuto, gentile, riservato, autoironico, determinato. Gino Giugni, socialista riformista, domenica 4 ottobre è morto a Roma così come era vissuto: lontano dai riflettori. E’ morto a 82 anni, era nato il primo agosto 1927 a Genova. Aveva rischiato di morire 26 anni fa, quando i Brigatisti rossi gli spararono tre colpi di pistola alle gambe. Era il marzo del 1983. Si salvò per un soffio, per pochi millimetri i proiettili non lesero la vena femorale. “Come vedi ho salvato la vita”, mi disse quando lo andai a trovare nell’ospedale romano nel quale era stato ricoverato dopo l’attentato dei terroristi rossi. Allora lavoravo all’ ”Avanti!”, ero un giovane cronista del servizio sindacale e lo avevo più volte intervistato. Poi parlò con i suoi attentatori, volle conoscerli. I brigatisti furono scioccati dall’incontro, qualcuno divenne perfino suo amico ed estimatore. Era un riformista e, nella logica delle Br, era un nemico da eliminare perché impediva lo scoppio della rivoluzione, migliorando le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia. Giugni era un nome, ha segnato la storia italiana degli ultimi 40 anni. La legge 20 maggio 1970, più nota come lo Statuto dei diritti dei lavoratori, era una sua creatura. Era stato il protagonista di quella grande riforma. Alla stesura vi lavorò con un vivace e prestigioso gruppo d’intellettuali: Giuseppe De Rita, Giuseppe Tamburrano, Federico Mancini, Ubaldo Prosperetti, Luciano Spagnuolo Vigorita, Antonio Francois D'Harmant, Luciano Ventura e Nino Freni. Fu una vera e propria rivoluzione, un passo epocale. Con quella legge, fortemente voluta dal ministro del Lavoro socialista Giacomo Brodoloni, si diede uno sbocco politico e legislativo all’Autunno caldo del 1969, l’anno della protesta operaia nelle fabbriche e degli innovativi rinnovi contrattuali, in testa quello dei metalmeccanici. Brodoloni morì un anno prima e lo Statuto fu approvato nel 1970 con Carlo Donat Cattin, cavallo di razza della Dc, subentrato a Brodolini come ministro del Lavoro. Fu una delle principali conquiste del primo centrosinistra, quello vero, voluto e realizzato da Pietro Nenni, Riccardo Lombardi, Amintore Fanfani ed Aldo Moro nel 1962. Era il centrosinistra composto da persone come Brodoloni che proclamavano: “Da una parte sola: dalla parte dei lavoratori!”. Segnò un’epoca. Diede dignità ai lavoratori e li pose su un piano di parità rispetto al capitale che, fino allora, aveva dominato la scena. Con lo Statuto dei lavoratori si cancellò il licenziamento arbitrario e si ammise (articolo 18) solo per giusta causa o giustificato motivo. Entrò la democrazia nelle fabbriche e negli uffici. Si riconobbe il diritto di associazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro, s’introdusse il divieto di discriminazione in base al sindacato scelto, stabilì il divieto dei “sindacati gialli” (quelli di emanazione aziendale). Lo Statuto si applicò e si applica solo nelle imprese con oltre 15 dipendenti, ma fece passare dappertutto il principio del divieto dello sfruttamento dei lavoratori. Il Pci non votò a favore ma si astenne, ritenendola una legge moderata. Fu un’altra occasione persa. Giugni, definito “il padre” dello Statuto, si stizziva per questo appellativo troppo personalistico. Considerava la legge un traguardo epocale perché “la condizione operaia –diceva- era fortemente sotto protetta”. Lui, professore di diritto del lavoro all’università di Roma, inventore in Italia del diritto sindacale, studente negli Stati Uniti delle conquiste sociali stabilite dalla legislazione del presidente Franklin Delano Roosevelt, l’artefice del New Deal e della lotta alla Grande depressione del 1929, puntava sul lavoro politico comune. Nel 1947 aveva partecipato alla scissione Socialdemocratica di Giuseppe Saragat, negli anni Sessanta era vicino a Riccardo Lombardi e alle “teste d’uovo” del Psi chiamate Giuliano Amato, Paolo Sylos Labini, Giorgio Ruffolo. Erano gli intellettuali ideatori della “programmazione economica” con Antonio Giolitti ministro del Bilancio. Giugni si definiva un socialista di “razza riformista turatiana”. Quando le Br lo colpirono nel 1983 stava lavorando al “protocollo Scotti” e al patto anti-inflazione proposto da Bettino Craxi alle parti sociali, ma alla fine approvato nel 1984 solo dalla Cisl, dalla Uil e dai socialisti della Cgil. Luciano Lama, all’ultimo momento, chiamò fuori la maggioranza comunista della Cgil su pressione di Enrico Berlinguer, che contestava il governo a guida socialista. La Cgil evitò per un soffio, per merito di tutti, una scissione e la confederazione rimase uno dei pochi baluardi del dialogo tra Pci e Psi. Erano gli anni di un durissimo scontro a sinistra, ma il sentimento di comunanza era ancora così forte che rimaneva l’appellativo reciproco di “compagni”. Il “padre” dello Statuto dei lavoratori, un alfiere dei sindacati, era in grande sintonia, anche sul piano umano, soprattutto con Pierre Carniti e Bruno Trentin. Assicurò che, con il blocco di 4 punti di scala mobile, non sarebbero calati i salari; che poteva scattare “un conguaglio” a fine anno se l’inflazione fosse stata superiore a quella predeterminata. La contrattazione aziendale, avvertì, non sarebbe stata annullata perché il governo era riuscito a respingere la richiesta della Confindustria. Rimase deluso dal “no” dei comunisti della Cgil, non se lo aspettava. Parlò al telefono con Trentin, allora segretario confederale della Cgil e in predicato a succedere a Lama come numero 1 del sindacato. “Mi dispiace Gino, c’è il ‘non possumus’ di Berlinguer”, gli disse l’intellettuale-sindacalista. Sul “no” del segretario del Pci aveva pesato l’altolà dell’”ala dura” della Cgil, allora costituita da Sergio Garavini e da Fausto Bertinotti. Così Berlinguer decise di chiedere un referendum contro il blocco parziale della contingenza. Si votò per abolire il decreto del governo Craxi nel 1985. Perse il Pci e vinse Craxi. Fu un altro grave errore di Berlinguer, dopo il via libera dato nel 1980 all’occupazione della Fiat. Gli intellettuali riformisti erano nel mirino dei terroristi rossi, allora ramificati nelle fabbriche. Il grande teorizzatore e protagonista del patto anti-inflazione e della predeterminazione degli scatti di scala mobile, l’economista Ezio Tarantelli, fu ammazzato dalle Br il 27 marzo del 1985, una giornata di sole, all’università di Roma, accanto alla facoltà nella quale insegnava. Pochi giorni prima mi aveva detto: “Penso che qualche ragazzotto potrebbe ammazzarmi, ma noi riformisti dobbiamo avere il coraggio di andare avanti”. Era un fuoriclasse sul piano politico, accademico ed umano. Aveva anche lanciato la proposta di “uno scudo europeo” contro la disoccupazione. Si batteva contro l’evasione fiscale, contro “lo scandalo - spiegava- di chi possiede uno yacht e paga meno tasse di un lavoratore”. Mi illustrava tanti progetti quando andavo a trovarlo all’ufficio studi della Cisl, che dirigeva, in via dei Villini a Roma. Mi parlava con passione e in maniche di camicia. Lui, come Giugni, era un uomo-cerniera fra la federazione Cgil-Cisl-Uil (l’obiettivo era un sindacato unitario) e il mondo politico progressista. Sapeva di essere un bersaglio. Giugni fu eletto senatore del Psi nel 1983 (dopo l’attentato delle Br), poi deputato, quindi presidente della commissione lavoro di Palazzo Madama e presidente del partito (accettò l’impegnativo incarico nel 1993-1994, gli anni bui di Tangentopoli, dopo le dimissioni di Craxi da segretario). Nel 1993 divenne ministro del Lavoro nel governo Ciampi e, in una situazione politica ed economica drammatica (imperversava Tangentopoli) insistette sulla strada della concertazione sociale proponendo un patto per ridurre il costo del lavoro. Alla fine la spuntò e firmò anche Bruno Trentin, ma subito dopo il segretario generale della Cgil si dimise. “La concertazione è un po’ come la socialdemocrazia. Si fa ma non si dice”, disse Giugni quando firmò con i sindacati l’intesa per contenere i salari ed evitare il tracollo dell’economia italiana. Il vino buono si apprezza di più a distanza di anni. Sergio Cofferati nel 2002, allora segretario della Cgil, portò tre milioni di persone al Circo Massimo a Roma in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che Silvio Berlusconi voleva cancellare. L’articolo 18 “è un diritto fondamentale e universale” disse Cofferati il 23 marzo 2002, parlando ai tre milioni di persone che avevano invaso il Circo Massimo e la capitale. “Il governo Berlusconi è del tutto inaffidabile”, accusò. Ma Cofferati non spese una parola per riconoscere i meriti dei Socialisti e di Giugni che avevano realizzato quella riforma epocale isieme con la Dc nel lontano 1970. Per “lo studioso prestato alle politica”, come si definiva Giugni, non esistevano tabù e schematismi. Coraggiosamente seppe guardare ai grandi cambiamenti economici e sociali degli anni 2000. Sottolineò l’esigenza di “aggiornamenti” dello Statuto, la sua creatura. Un analogo discorso sulla necessità di riformare il mercato del lavoro, fecero Massimo D’Antona e Marco Biagi, due suoi colleghi giuslavoristi. Entrambe i professori di diritto del lavoro furono uccisi dalle Brigate rosse. Il primo nel maggio del 1999 (governo D’Alema) e l’altro nel marzo del 2002 (secondo esecutivo Berlusconi). Gli ultimi anni di vita furono tormentati. Giugni, qualche tempo fa, anche per la “gambizzazione” realizzata dalle Br nel 1983, fu colpito da un ictus. Passò gli ultimi anni della sua vita su una sedia a rotelle, sempre immerso nella sua sterminata biblioteca. Milioni di lavoratori e tutta l’Italia gli devono molto per aver contribuito a modernizzare, a rendere più civile e più giusto il paese. “La politica è un fare per gli altri, per i più deboli, per i lavoratori”, sosteneva. Di quest’uomo e di queste idee oggi avrebbe molto bisogno la sinistra e l’Italia. Addio Gino Giugni.

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