La madre di tutte le primarie si approssima, e i condottieri del Partito Socialista (liberale,
guai dimenticare l’aggettivo!) arringano la truppa via internet,
incitandola a non “disertare” (sic!) e a costituire comitati, provincia
per provincia, di appoggio a Pierluigi Bersani.
Di
primo acchito saremmo tentati di definirla una scelta singolare: unico
tra i tre partiti (PD, SeL e appunto PSI) del centro-sinistra in
embrione, quello socialista non ha indicato nemmeno un candidato alla
carica di premier (in pectore), respingendo un invito in tal
senso formulato dalla sinistra interna; d’altra parte, i vertici non
hanno manco preso in considerazione l’ipotesi di sostenere Valdo Spini,
socialista doc, intenzionato a scendere in pista. Chi non gioca –
viene da dire – neppure dovrebbe schierarsi, perché è sgradevole che il
membro di un’alleanza parteggi per un sodale (il PD) anziché per un
altro (SeL); soprattutto, in mancanza di un impegno diretto, una
dirigenza che pretende di essere “liberale” dovrebbe avere il buon gusto
di lasciar liberi gli iscritti di esprimere le proprie preferenze,
votando, a seconda delle opinioni e dei gusti, Vendola, Bersani, Renzi o
la coraggiosa Puppato.
Perché Bersani, allora? Perché non far competere Riccardo Nencini, o un altro big del
partito? La risposta alla seconda questione è facilissima: per non
certificare un’imbarazzante debolezza, proprio nel momento in cui,
grazie al “patto tripartito”, il PSI gode della benevolenza dei media,
e va spesso in tivù (ma, secondo i sondaggi, non si schioda dall’1%).
La prima domanda è quasi altrettanto semplice, per chi abbia chiara la
situazione attuale e non si lasci fuorviare da propaganda e chiacchiere.
Il segretario del PD, ex comunista, sta combattendo una
battaglia per la sopravvivenza: se perde è politicamente finito, e la
sua creatura si disgrega. Matteo Renzi è una minaccia seria: in caso di
trionfo, non farà prigionieri, e modellerà il partito a sua immagine e
somiglianza. Più che un nuovo Berlusconi, è un blairista spregiudicato
e (forse) fuori tempo massimo, che preferisce i simposi finanziari al
dialogo col sindacato; i suoi punti di forza sono la battuta sferzante,
che conquista l’elettorato “di sinistra” più superficiale, e la capacità
di attrarre i delusi del centro-destra, dai quali, a differenza di
Bersani e compagnia, non viene percepito come un alieno. Per contenere
la sua avanzata, il segretario ha in mano una sola carta: quella della
svolta – anzi, del ritorno – a sinistra. Per ora, la sta giocando decentemente, opponendosi a parole alle
più recenti porcate liberiste del Governo Monti: la richiesta di
“cambiare marcia su tasse, scuola ed esodati” (da: Il Piccolo del 24
ottobre) è ad acta. Dicendo “qualcosa di sinistra”, Pierluigi
Bersani corteggia una base sfiduciata, ed al contempo taglia l’erba
sotto i piedi di Vendola, che rischia di essere il grande sconfitto
delle primarie, falciato da una riedizione del voto utile.
Non crediamo di sbagliare, però, predicendo che il “neocomunismo” dell’ex presidente
emiliano durerà fino alla sera del 2 dicembre (o del 25 novembre, se
riuscisse, per miracolo, ad imporsi al primo turno): quando dalle parole
toccherà passare ai fatti, cioè ad affossare una manovra, a contraddire Napolitano o a fronteggiare l’onda spread,
è probabile che il buon Pierluigi ingrani la retromarcia, biascicando,
al solito, “non c’è alternativa, noi siamo responsabili ecc.”. Se uno il
coraggio non ce l’ha, non se lo può dare, e negli ultimi mesi (anni?)
gli eredi del comunismo italiano confluiti nel PD hanno mostrato di non
averne neppure un briciolo, né una visione alternativa al liberismo
imperante. Insomma, prima arrivano le primarie e meglio è: un cozzo
novembrino con la realtà sarebbe fatale al segretario-equilibrista.
Anche
Nencini spera che il tempo passi in fretta, e che i mercati non si
mettano di traverso. Investendo poco o nulla, può ottenere parecchio,
cioè una manciata di deputati e senatori – e tutto questo senza
assumersi la responsabilità di una linea politica. L’appoggio a Bersani,
garante dell’intesa, non implica affatto uno slittamento a sinistra dei
socialisti “liberali”: l’assessore toscano ha mangiato la foglia e, un
attimo prima di annunciare la costituzione dei famosi comitati (19
ottobre), ha dichiarato testualmente che “sarebbe
un errore rifiutare il confronto con i partiti cattolici che hanno
contribuito ad aprire una pagina nuova in questa Italia. Di Pietro non è
in questa alleanza, non bisogna escludere che domani Casini possa farne
parte (…) Io lavoro a questa ipotesi da tre anni e mezzo, è ancora oggi
valida, anzi io ritengo che sia la strada maestra (15 ottobre)”.
Secondo
Nencini, dunque, la rottura con l’UDC è una mossa tattica:
ridimensionato Nichi Vendola e respinto l’assalto di Renzi, Bersani
tornerà sui suoi passi e, dopo mesi di mugugni e voti positivi in
Parlamento, sarà pronto ad assicurare, in aprile, il rispetto di
quell’agenda Monti che l’Uomo del Colle - a Roma e in trasferta -
difende a corpo morto, neanche fosse la Costituzione.
L’auspicio di Riccardo Nencini è il timore di chi scrive, e la ragione per cui, di qui a un mese, risparmierò un paio di euro.
Abbigliato
con un costume d’antan Bersani è convinto di poter gabbare il suo
elettorato; per adesso ha gabbato Vendola, costretto, per galvanizzare
se stesso e i suoi, a parafrasare Paolo Ferrero stando sul pulpito
sbagliato. Nel frattempo, il presunto tecnico al governo porta avanti la
“distruttiva” (parola di Zingales) missione assegnatagli.
Solo piazze in ebollizione, ormai, possono mutare il corso degli eventi.
Trieste, 24 ottobre 2012
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