13/01/2013 DI CARLO PATRIGNANI - DEDICATO AL COMPAGNO "FRANCO BARTOLOMEI" CANDIDATO ALLA REGIONE LAZIO NELLE LISTE DEL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO.
Mario Monti ‘il riformista’, fresco del doppio pesante endorsement di
Ppe e Vaticano, ha lanciato a tutti i riformisti presenti nella
coalizione di emergenza nazionale per il rischio di fallimento
del Paese, un appello a convergere in vista del prossimo governo: per un
Monti-Bis? Chissà! E subito pero’ incassa il plauso del leader del Pd,
Pier Luigi Bersani: “Visto? Il Pd ha una certa forza gravitazionale…”.
Dopodiche’ c’e’ un tabù che non si vuol toccare, infrangere: il
significato di riformista, derivato da riformismo, nota prassi politica
che storicamente si è sempre contrapposta alla prassi rivoluzionaria di
derivazione marxista-leninista: la rivoluzione, armata ovviamente, per
la conquista del potere. La disputa culturale tra rivoluzione e
riformismo, tra rivoluzionario e riformista, l’uno contrapposto
all’altro, inconciliabili, ha interessato la storia della sinistra
italiana nel dopoguerra. Il crollo del Muro di Berlino nel 1989 ha posto
fine ad essa con la sconfitta della via rivoluzionaria, e il fallimento
del comunismo, ma al tempo stesso non ha sancito in absoluto
l’affermazione della seconda, la via rifomista. Non a caso, oggi, nel
Pse è aperta la ricerca sui valori fondamentali della Socialdemocrazia
del XXI° secolo. Pur avendo, con la via rifomista, ottenuto e
conseguito, in particolare nei paesi del Nord Europa, la straordinaria
conquista dell’Welfare State, le forze socialiste e socialdemocratiche,
progressiste e laburiste, riunite nel Pse, avvertono l’urgenza di
ristrutturare l’impalcatura teorica del riformismo, ridefinendo termini
come ‘progresso’, ‘sviluppo’, ‘crescita’, ‘lavoro’, ‘benessere’ e di
fronte alla grave crisi finanziaria e sociale addirittura di ripensare
l’economia, la scienza economia, cominciando a studiare un’ermeneutica
economica.
Negli anni ’60 e ’70, dominati dall’ideologia comunista corrotta dal
catto-comunismo di Palmiro Togliatti, tra il riformismo di Pietro Nenni e
quello socialdemocratico nato dalla svolta di Bad Godesberg (1959)
della Spd tedesca di Willy Brandt, si sviluppo’ il riformismo rivoluzionario
che, sulla scia della ‘egemonia’ culturale e politica di gramsciana
memoria, ribadiva la via parlamentare e democratica perla conquiste dei
poteri ed accentuava la critica al sistema capitalistico: il capitalismo
non era da aggiustare ma, attraverso le riforme di struttura,
era da riformare radicalmente, anzi da rovesciare. Ne furono
protagonisti indiscussi: Riccardo Lombardi, Bruno Trentin, Vittorio Foa,
la Cgil di Giuseppe Di Vittorio e Fernando Santi, e poi la Fim-Cisl di
Pierre Carniti. Dal piano del lavoro alla riduzione dell’orario di
lavoro; dalla ‘liberazione’ del lavoro all’istituzione delle 150 ore di
formazione continua; dallo Statuto dei lavoratori ai consigli dei
delegati, per portare la Costituzione in fabbrica; dalla scuola pubblica
dell’obbligo alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, dalla
programmazione economica al superamento del segreto bancario e della
rendita fondiaria per accrescere il ruolo dello Stato nell’economia e
nella finanza: queste sono state le ‘riforme di struttura’, che quel
‘riformismo rivoluzionario’, propose per cambiare – elevandole anche
nella qualità – le condizioni di vita del ‘popolo lavoratore’, della
‘povera gente’. Riforme di struttura che, arricchite dai contributi dei
vari Paolo Sylos Labini, Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo e Federico
Caffé, in quanto tali non potevano essere indolori specie per chi fruiva
di rendite e posizioni di parassitismo. Andavano altresì ‘tagliate le unghie’ a quelli che Federico Caffé chiamava gli ‘incappucciati’,
che con la complicità del sistema bancario occultavano i profitti
ricavati dallo sfruttamento del lavoro e dei mercati del consumo,
dirottandoli o alla rendita finanziaria o alla rendita fondiaria.
Quest’ultima versione del riformismo è delle due sopra citate quella
sopravvissuta al crollo del Muro ed alla crisi di identità della
socialdemocrazia e che, rispetto alla grave crisi finanziaria, sociale
ed economica, puo’ tuttora dare qualche indicazione per una possibile
via d’uscita. Un’impostazione teorica che ha poco in comune con il
riformismo socialdemocratico di cui Lombardi e Trentin soprattutto fin
dalla fine degli anni settanta ne avevano colto in pieno i segni della
crisi identitaria, come con la terza via neoliberista di Tony
Blair e di Gerhard Schroeder nei primi anni duemila e fatta propria
anche dal Pd di Walter Veltroni. Ma soprattutto non ha nulla a che
vedere con il riformismo di Monti (e del centro-destra berlusconiano)
che, al confronto, è ‘contro-riformismo’, sicché quelle passate da Monti
per ‘riforme’ sono delle vere ‘contro-riforme’. Nel senso che quanto a
suo tempo fatto – lo Statuto dei Lavoratori, la libertà sindacale e
politica, l’Welfare State, la scuola pubblica, la qualità della vita, la
fruizione di beni comuni e universali, come l’energia elettrica, ma
anche la sanità, i trasporti, l’informazione – per il ‘popolo
lavoratore’ e per ‘la povera gente’, è stato letteralmente rimesso in
discussione dal governo Monti. Tanto che il 28% delle famiglie italiane è
alla soglia della povertà, i consumi sono scesi al livello del 1945,
una disoccupazione giovanile del 37%, piu’ di un giovane su tre non ha
lavoro e oltre un miliardo di ore di cassa integrazione Il ‘merito’ di Monti è aver riportato lo spread sotto quota 300: cio’
di certo sarà per lui un formidabile aiuto elettorale, lo rafforzerà
nelle trattative per la futura formazione di un nuovo governo con il
centro-sinistra, ma affosserà ogni tentativo di introdurre elementi di
socialismo che tendano a correggere le cause che sono all’origine della
grave crisi finanziaria, sociale ed economica, come l’abbattimento di
ogni controllo sul movimento dei capitali e di vincolo sulle attività
del sistema bancario, e la totale mano libera nell’offerta e
nell’organizzazione del lavoro.
Ora, di fronte all’uso del tutto improprio ed arbitrario di riformismo
da parte del ‘riformista’ Monti non solo non si registrano correzioni e
precisazioni – tranne quelle puntuali e circostanziate di Susanna
Camusso: “Serve un governo del lavoro [...] il tema del lavoro [é]
presente solo a sinistra, ma assente nei ragionamenti di tutti gli
altri” – ma si ascoltano apprezzamenti per ‘le riforme’ di Monti, di cui
da tempo si è fatto ‘sponsor’ attivo, Enrico Letta, numero due del Pd:
cos’hanno in comune Letta e Monti, oltre ad aver la stessa visione di
riformismo ed esser entrambi credenti? Infine, dopo l’equivoco, il
dubbio: ‘il riformista’ Monti ci racconta che, nel novembre 2011 quando è
stato nominato Premier, l’Italia era a rischio di fallimento e si
rischiava di non poter pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e poi
che nel 2012 l’aumento del debito pubblico è imputabile agli aiuti
forniti a Grecia e Portogallo. “Com’è possibile – si domanda su
‘Micromega’, Guglielmo Forges Davanzati – tenere insieme queste due
affermazioni? E’ ragionevole pensare che uno Stato a rischio di
fallimento si adoperi per aumentare questo rischio (o accetti di farlo)
per destinare proprie risorse al salvataggio di altri Stati?”.
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