domenica 4 marzo 2012

PIETRO NENNI, LELIO BASSO ED.........IL SOCIALISMO EUROPEO


di Giuseppe Giudice

Ho recentemente avuto modo di leggere il carteggio Nenni-Basso riguardante un arco temporale di trent’anni (1947-1977). E’ una lettura molto interessante anche per la profonda amicizia che legava i due grandi dirigenti socialisti, amicizia mai venuta meno anche nei vari momenti di dissenso politico. In questa nota mi soffermerò su alcune affermazioni fatte da entrambi sulla socialdemocrazia e socialismo europei, negli scambi epistolari dei primissimi anni 50.

Entrambi considerano il socialismo europeo come complice dell’imperialismo americano perché schierato contro il “campo socialista” guidato dall’URSS. Certo in Nenni il giudizio è meno netto e più articolato ed anche meno “dottrinario” di quello di Basso (amichevolmente accusa il suo amico di essere troppo “cerebrale”) ma la sostanza non cambia. Solo dopo il 1956 c’è un timido parziale ravvedimento in entrambi.

E occorre considerare che Basso si era comunque sempre opposto allo stalinismo.

Ed allora perché quelle posizioni.

Le ragioni sono due: l’arretratezza del socialismo italiano rispetto a quello europeo. Lo storico Maurizio Degli Innocenti mette in rilievo come l’essere stato messo al bando – causa fascismo – per vent’anni ha impedito l’aggancio del socialismo italiano alla riflessione collettiva sul ripensamento del socialismo che avveniva in Europa: dalla Gran Bretagna, al Belgio, alla Francia, all’Austria e alla Svezia. La seconda ragione (che è conseguenza della prima) è la egemonia culturale comunista sulla sinistra che è totale fino al 1956.

In effetti il ripensamento del socialismo europeo degli anni 30 viene avvertito solo dai socialisti che militano nel partito d’Azione (Lombardi, Foa, De Martino, Brodolini) ma non certo da Nenni, Pertini e Basso (tutti provenienti dal Psi prefascista).

Ora poiché penso che il Fronte Popolare sia stato la camicia di forza della sinistra italiana che ha impedito il suo aggancio all’Europa e gli effetti deleteri si avvertono ancora oggi, è essenziale abbattere la gravissima mistificazione ideologica su cui si fondato il giudizio fuorviante sulla socialdemocrazia.

In Italia è conosciuto pochissimo il pensiero socialista tra gli anni 20 e 30. Molti hanno letto Lenin, moltissimi Gramsci, qualcuno Rosa Luxemburg, ma è completamente sconosciuta tutta l’evoluzione del marxismo socialdemocratico da Kaustky a Hilferding , da Bauer a Adler, così come i socialisti postmarxisti come De Man, Polanyi o Cole. O meglio De Man lo si conosce solo perché ampiamente citato da Carlo Rosselli in “Socialismo Liberale”. Così come sono sconosciuti gli stessi comunisti libertari ostili al leninismo come Pannekoeck, Gorter, Victor Serge.

Insomma un pezzo della sinistra italiana è stata terribilmente provinciale (incluso un pezzo del PSI).

Ma questo provincialismo le ha impedito di vedere la realtà con lenti adatte.

Pur nelle divergenze profonde che li caratterizzavano, socialisti democratici e comunisti libertari, vedevano nell’URSS degli anni 20 e 30, non la patria del socialismo , ma un capitalismo di stato che fondava un potere imperiale ed oppressivo, del tutto opposto alle ragioni emancipatorie del socialismo.

La II Guerra Mondiale si chiude con la spartizione di aree di influenza tra due potenze imperiali: una a capitalismo privato, gli USA; l’altra a capitalismo di stato: l’URSS.

Come ha sottolineato Wallerstein, la guerra fredda è stata un mito. In realtà USA e URSS si equilibravano perfettamente. L’esistenza dell’URSS e dei paesi satelliti garantiva agli USA l’egemonia sui 2/3 del pianeta. Non è un caso che ci è sempre stato un tacito accordo di non ingerenza. Dall’Ungheria, al Cile. Solo nel 1961 si rischiò grosso a Cuba, ma Kusciov ritirò subito i missili. La guerra del Vietman la voleva il complesso militare-industriale americano: sappiamo tutti che l’incidenza della spesa militare sul Pil è molto alto in America.

Però su questa contrapposizione è stata costruita una grossa mistificazione ideologica da ambo le parti. Gli Usa hanno creato il mito del “mondo libero e democratico” contro il totalitarismo comunista, l’URSS quello del campo socialista a difesa del proletariato mondiale. Tutte cazzate, entrambe. Gli USA hanno appoggiato attivamente le più spietate e sanguinarie dittature in America Latina e Asia (vedi Indonesia); l’URSS ha represso nel sangue le rivolte operaie in Ungheria, Polonia, Germania Est.

Ora i socialisti europei, nel 1945, in massima parte erano neutralisti: né con gli USA , né con l’URSS. Ma la logica dei blocchi li costrinse poi a scegliere il male minore: l’Occidente. Perché solo in una democrazia postbellica era possibile costruire un compromesso forte con il capitalismo che avrebbe consentito poi lo sviluppo del modello sociale più avanzato al mondo. Il capitalismo di stato sovietico non consentiva alcun compromesso né sul terreno sociale, né ovviamente su quello democratico. Ma , a parte qualche scivolamento della destra socialdemocratica, il socialismo europeo ha sempre avuto una vocazione di fondo neutralista. Lo stesso programma di Bad Godesberg parla (nel 1959) di una Germania riunificata e neutrale nel quadro di una area denuclearizzata.

Questo demolisce totalmente certi pregiudizi.

Del resto Brandt, Mitterand, Kreisky e Palme hanno sempre attivamente lavorato per il superamento dei blocchi militari.

Ma torniamo ai socialisti ed alla sinistra italiana. Con tali premesse è ovvio che il 1956 è un anno liberatorio. Liberazione di pensiero, di creatività, di prospettive. Nenni ha l’intelligenza di affidare a sostegno della svolta autonomista (che provocherà anche l’evoluzione sia pur lenta del PCI) il lavoro di elaborazione a Riccardo Lombardi e Francesco DE Martino (due socialisti ex azionisti) più un giovane ex comunista dissidente, Antonio Giolitti. Che sono poi quelli che hanno cercato di indirizzare la sinistra italiana sui giusti binari (Craxi e Berlnguer, per ragioni diverse, l’hanno fatta di nuovo deragliare).

Non credo che l’autonomismo socialista si possa considerare esaustivo nel definire il percorso di una nuova sinistra italiana nel PSE. Ma fornisce tuttora degli elementi forti di guida e di indirizzo e sono certo molto più pregnanti delle prediche di D’Alema e Reichlin intrise di contorsionismo giustificazionista e che non si sa dove vogliano andare a parare.

Se vuole vivere e non sopravvivere, la sinistra italiana deve uscire dal provincialismo.

PEPPE GIUDICE


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