venerdì 8 giugno 2012

“L’INCHIESTA SUI GIOVANI”: UN ARTICOLO DI CARLO ROSSELLI POCO NOTO.

di Nicola Del Corno

Il 9 giugno del 1937 venivano uccisi a Bagnoles de l’Orne Carlo e Nello Rosselli. A quasi 75 anni dal loro assassinio il pensiero di Carlo continua a spronare i socialisti affinché le idee di eguaglianza e libertà siano riproposte con determinazione, pena il prevalere di visioni egoistiche, gerarchiche ed autoritarie. L’insegnamento di Rosselli, che fosse possibile coniugare finalità socialiste con istanze liberali per opporsi ad una deriva reazionaria, si rinnova pertanto costantemente. Rosselli è giustamente famoso per il suo Socialismo liberale, scritto durante il confino di Lipari alla fine degli anni venti. Poco conosciuto è invece questo articolo, pubblicato nel 1924 su “Libertà”, il quindicinale della Federazione giovanile socialista unitaria, nel corso del quale aveva modo di ragionare a proposito delle differenze fra i giovani socialisti e i giovani fascisti. Si tratta di uno scritto che colpisce per la fermezza morale del suo autore; di fronte alla montante violenza del fascismo il giovane fiorentino aveva la forza di rispondere con ottimismo: quel sentimento di distruzione e irrazionalismo che conquistava allora la maggioranza dei giovani italiani appariva comunque caduco; nei tempi lunghi non avrebbe potuto infatti competere con l’immortalità dei principi socialisti e democratici, sebbene questi non potessero godere in quel preciso momento che relativi consensi.
L’articolo prende le mosse dalla accusa di arretratezza che i seguaci del nuovo corso politico italiano sono soliti scagliare nei confronti di quei coetanei – come appunto il fiorentino – che si sentono ancora attratti da quegli ideali «di bontà, di fratellanza, di giustizia» che avevano infiammato le generazioni precedenti: «ci dicono che siamo vecchi, sorpassati, cristallizzati, in formule che oramai hanno fatto il loro tempo»; e tali accuse – rimarca l’autore – vengono proferite con un metodo che già lascia intendere come gli ideali sopra ricordati non alberghino più nei cuori di costoro, ossia la dialettica viene portata avanti «con quello stile cortese che va dalle ingiurie volgari alle… botte». Peraltro l’alterità risulta palese anche agli occhi dei giovani socialisti, come ammette lo stesso Rosselli: «quando li vediamo passare […] nelle dimostrazioni tumultuose o negli ordinati militareschi cortei, quando li scorgiamo urlanti e agitanti gli strumenti della… convinzione sui camions lanciati a frenetica corsa, quando leggiamo i loro giornali, quando, nelle rare pause serene, ci è dato parlare con essi, sentiamo che ci differenziamo in qualche elemento fondamentale».
Tale completa estraneità – tutto appare infatti diverso: «i nostri principi, la nostra educazione, le nostre aspirazioni sono antitetiche», e di conseguenza «la nostra visione della vita è radicalmente differente» – fa sembrare all’autore di «essere un po’ stranieri su questa terra, quasi facenti parte di un popolo, di una razza, di una civiltà diversa». Ciò che aveva costituito la ragione ideale di molte delle battaglie ideali e pratiche dei giovani socialisti di una generazione precedente vengono ora schernite e demolite dal fascino di nuove parole d’ordine che impongono differenti valutazioni sulle sorti dell’umanità.
Descritta la situazione presente, Rosselli si propone di cercare le cause di tale ribaltamento dei valori negli ideali giovanili, evitando di usare l’abusata ed esclusiva chiave di lettura dello «spirito reazionario e di classe»; i giovani infatti hanno spesso dimostrato di possedere «una potente autonomia rispetto all’ambiente nel quale furono cresciuti», ribellandosi «alla tradizione e allo stato di cose che li circonda». Successivamente quell’ansia idealistica che caratterizza in positivo le loro prime impressioni sul mondo tende a deteriorarsi via via che i casi della vita si complicano con il raggiungimento di una età più matura; e allora diventa «dolorosa e difficile» la «lotta» per mantenere quella «purezza, indipendenza spirituale, coerenza», caratterizzante l’età giovanile; d’improvviso «il sipario cala sul grigio» e così «il giovane si è fatto uomo». Se così è quasi sempre successo, colpisce come la generazione presente si sia «buttata in un movimento che urta colle più belle e secolari tradizioni della gioventù», rinunciando così a quelle aspirazioni alte di palingenesi radicale che hanno infiammato i pari età delle generazioni precedenti. Il motivo di tale scetticismo è rintracciato dal Rosselli nella «guerra»; in quello «sconvolgimento immane ch’essa ha determinato […] nelle anime, nelle coscienze»; e se è indubitabile che «per una generazione almeno il suo ricordo rivivrà nelle azioni degli uomini», appare parimente vero che è «sui giovani, soprattutto sui giovanissimi [che] essa esercitò una influenza enorme, decisiva».
La generazione, che ora ingrossa le file del partito fascista facendo proprie le parole più violente del movimento, «non vide gli orrori della guerra», ma ne respirò a pieni polmoni il clima, e poiché «la sua fantasia fu impotente a realizzare», illumina ora di «una luce ideale» anche «i lati più dolorosi e più duri» del conflitto appena cessato. Manca in questi giovani quella disillusione sulla violenza, che invece ha inevitabilmente colpito anche «il combattente più entusiasta, l’interventista più frenetico»; costoro infatti ebbero modo di toccare con mano «i dolori, le lacune, le mirabili virtù» di una massa di uomini accomunata, al di là della classe di appartenenza, dal tremendo destino della guerra; e così «vicino alle piccole e grandi diuturne tragedie», pure «i giovani studenti ch’eran partiti folli d’ebbrezza e fuor d’ogni realtà, vennero temperandosi»; infatti una volta al fronte «l’ideale astratto» lasciò spazio al «farsi concreto», ossia alla consapevolezza che la vita è «sempre complicata e multiforme»; comprensione che probabilmente gli sarebbe sfuggita senza questa esperienza formativa. Ma coloro che in trincea non ci misero piede per ragioni d’età – «i fratelli minori» – ebbero modo di assaporare solamente «il mito» della «guerra ideale». L’«epopea» della «‘bella guerra’», alla quale i giovani dell’epoca coeva si era formati, sottolinea Rosselli, prevedeva «un oceano di retorica, di frasi, di formule», che nel tempo odierno, finito il conflitto, si stanno dimostrando «letali», dal momento che della guerra hanno potuto cogliere «solo il lato bello, nobile, grande». Non potendovi partecipare per motivi d’età, si è manifestata una malcelata frustrazione per non aver potuto prendere parte da protagonisti a tale grandioso evento: «quanti non fremettero dal desiderio di assumere una parte attiva accanto ai loro fratelli maggiori e non sognarono la morte per una pallottola in fronte, la medaglia, la gloria». La conseguenza di questa mancata iniziazione alle materiali tragedie della guerra è che «fratellanza , amore, internazionalismo, pace» appaiono ora come degli «ideali risibili, da pazzi»; mentre «violenza, forza, potenza» sono diventati «il loro bagaglio intellettuale che si è fatto sangue del loro sangue».
Di conseguenza, la pace appare come un disvalore, un «grigio» impedimento al «loro spasmodico desiderio di fare, di dare, di immolarsi»; a tale vuoto esistenziale rispondono cercando «l’eroico» in una qualsivoglia prassi politica; così «furono fascisti in buona fede come forse sarebbero stati comunisti se nel sovversivismo postbellico vi fosse stata una decisa volontà d’azione». Difficile risulta recuperare a valori di civiltà questi animi esagitati, suona amara la riflessione di Rosselli: «parate, violenze, distruzioni, can-can, retorica, rumore» sono divenuti il loro pane quotidiano. Formati in un preciso lasso di tempo in cui «l’uomo era nulla, numero anonimo […] in balia di un fato non dominabile», non possono comprendere il «valore» della vita.
Però il giovane fiorentino vuole concludere l’articolo con ottimismo; il sentimento di distruzione che conquista nel momento la maggioranza dei giovani appare comunque caduco, non può infatti competere con l’immortalità dei principi socialisti: «Davvero che ci sentiamo un battaglione in marcia. Pulsa in noi l’ardore delle generazioni passate e avvenire. Siamo pochi? Cresceremo. Siamo fuori tempo? Sapremo aspettare. Verrà il nostro turno. Ce lo dice la fede profonda che nutriamo. In noi è il senso della eternità. Ci sentiamo militi di una milizia infinita, missionari di una missione immortale. Questa la grande nostra superiorità sugli avversari. […] Non daremo frutti oggi, domani, e il giorno dopo ancora. Ma infine il giorno nostro verrà».

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