mercoledì 1 luglio 2009

Teocrazia e democrazia: un conflitto inevitabile

di Giuliana Sgrena*

01/07/2009 - È velleitario pensare che una svolta progressista possa avvenire attraverso la via elettorale in un paese teocratico come l’Iran. La mobilitazione per il candidato più moderato Moussavi contro l’ultraconservatore Ahmadinejad aveva fatto sperare i giovani e le donne iraniani – i più penalizzati dal regime dei mullah – in un cambiamento. Il grande afflusso alle urne invece ha favorito il presidente uscente, del resto nelle sue mani e più ancora in quelle della guida spirituale Ali Khamenei, suo sostenitore, stanno le leve del potere. E in un regime come quello iraniano controllare le organizzazioni di massa è un potere insostituibile. Ci saranno stati brogli, come ha denunciato lo sfidante di Ahmadinejad? Possibile, anzi probabile, ma difficilmente potrà dimostrarlo, e comunque non serve, come fa Moussavi, invocare uno stato di diritto, in un paese dove non esiste. Se il regime avesse ritenuto Moussavi un «sovversivo» non avrebbe mai permesso la sua candidatura, è infatti il consiglio dei guardiani della rivoluzione che avalla le candidature. E poi l’esperienza del moderato Khatami, che pure aveva vinto le elezioni senza poter cambiare nulla nel sistema di potere, è un esempio lampante della irriformabilità della teocrazia. In Iran sono ammesse solo le organizzazioni islamiche, tutte le altre sono fuori legge, con la solo eccezione, ma si tratta solo di tolleranza, di una organizzazione che fa riferimento allo scià. Non si può dunque parlare dell’Iran come se fosse un paese democratico, non esiste una democrazia islamica (un regime religioso dipende dal volere di dio e non da quello degli uomini, base di un sistema democratico), dunque un sovvertimento del potere dall’interno è impossibile. L’unica speranza può venire da una forte mobilitazione di uomini e donne che abbia un effetto dirompente (anche non violento ma che sarà represso nel sangue, proprio come sta avvenendo da settimane) tale da travolgere il sistema di potere. Una rivoluzione insomma. Portata avanti da quei settori che lottano per un paese democratico libero dal giogo religioso. Che limita pesantemente i diritti delle donne e delle minoranze, che vieta le libertà fondamentali e che fa della sharia (legge coranica) la legge dello stato. Una legge che non rispetta i diritti dell’uomo: le impiccagioni, le lapidazioni sono all’ordine del giorno. Il movimento che si è sviluppato ufficialmente contro il risultato elettorale finora non ha indicato un obiettivo politico chiaro. Se l’obiettivo resta solo quello di rifare le elezioni non avrà un futuro: le elezioni difficilmente si rifaranno e se si rifacessero probabilmente il risultato non cambierebbe sostanzialmente. Comunque, al di là del motivo scatenante – il risultato elettorale – è probabile che nella protesta si siano inseriti anche settori laici che vogliono veramente un cambiamento del sistema iraniano, ma finora nessun leader è emerso anche perché se uscisse allo scoperto sarebbe facilmente eliminato (fisicamente) dai basiji. Occorre dunque concludere che il bagno di sangue è inutile? No, quello che sta avvenendo in Iran dimostra l’indebolimento del regime teocratico anche se avesse, o ha, la maggioranza elettorale. Tutte le rivoluzioni vengono portate avanti da avanguardie o élite politiche e culturali. Da parte della sinistra occorre oltre alla solidarietà con la protesta e una condanna della repressione, un’analisi della situazione per poter dare un sostegno politico alle forze democratiche, a partire dalle donne che hanno lanciato una campagna per la raccolta di un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie nei loro confronti.

*Giornalista de Il Manifesto ed ex-candidata di Sinistra e Libertà


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