martedì 30 giugno 2009

La crisi della sinistra in Europa e in Italia

di Riccardo Lombardi*


30/06/2009 - L’esistenza di una classe dirigente all’altezza delle sfide attuali rappresenta una questione che investe tutte le espressioni sociali del Paese, non solo la politica. In questo campo specifico esiste, tuttavia, una usura e una caduta di credibilità che rappresentano comunque questioni che devono essere risolte e superata con un ricambio anche dei metodi di partecipazione e selezione.

L’esistenza di una crisi della sinistra a livello europeo ha ricevuto dalle recenti elezioni per il Parlamento europeo una ulteriore conferma. E’ allora necessario allargare lo sguardo perché la pur necessaria analisi critica al nostro interno non sarebbe altrimenti sufficiente. Ma è anche necessario non commettere l’errore di identificare totalmente questa crisi a livello europeo con quella esistente nel nostro paese che presenta analogie ma anche specificità sulle quali sarà opportuno ritornare, anche perché su queste abbiamo una responsabilità diretta e preminente.

Stando a questo livello europeo sembra che si possa cogliere un elemento comune che, se ci ragioniamo un momento, giustificherebbe abbondantemente la crisi della sinistra. In sintesi la sinistra pretenderebbe di esistere campando di rendita sulle riforme degli anni ‘30-40. E’ vero ha inventato il new deal, ha fatto la prima riforma socialdemocratica. Ma sono passati più di 50 anni da allora! Se diciamo che i nostri principi ruotano intorno al concetto di eguaglianza, che come tale è dinamico, ma poi si resta fermi per 50 anni, non ci si dovrebbe meravigliare se qualcosa non torna. Sarebbe strano il contrario. Quando si dice che siamo rimasti fermi ci si riferisce e a quelli che si sono fermati alle riforme fatte una volta e a quelli che pensavano di essere più avanti solo perché la loro analisi e la loro critica non si erano confrontate con la realtà, nemmeno con quella che avevano invocato.

E’ vero, nel frattempo abbiamo combattuto e contribuito a vincere una grande guerra mondiale contro il totalitarismo di destra. Non è merito da poco ma paradossalmente quella vittoria ha accelerato i tempi delle trasformazioni economiche e sociali e tra questi cambiamenti abbiamo fatto fatica a riconoscere il cambiamento della domanda sociale, gli effetti del crescente ruolo di strumenti del cambiamento come la rivoluzione tecnologica che come tale, e se non governata, può avere valenze opposte. Il movimento femminista e la crisi ambientale sono altre due spie di questo nostro ritardo. Abbiamo assistito al crollo del muro di Berlino 20 anni fa, ma una parte di quella sinistra fa ancora fatica a riconoscere la ovvia necessità di tornare al 1921, accumulando un ancora maggiore ritardo. E ciò è vero particolarmente nel nostro paese.

A livello europeo la stessa vittoria del modello economico liberista ha visto la sinistra su posizioni e dir poco ambigue. Questa sinistra ha dimenticato anche i limiti obiettivi delle soluzioni realizzate dalle logiche del mercato per non incorrere in evidenti contraddizioni con la propria pratica politica, ma cosi facendo ha tolto credibilità a se stessa. Si potrebbe spiegare così come mai una crisi economica quale quella di questi anni sia intervenuta per demeriti intrinseci della teoria liberista ma senza una posizione critica e delle proposte alternative da parte della sinistra. E così quando questa crisi si è manifestata le reazioni non potevano avere un segno di consenso per questa sinistra. E’ questa la sinistra che non raccoglie consensi e allora la critica andrebbe rivolta a quelli che pensano che questa sia l’unica sinistra possibile mentre è forse l’unica sinistra impossibile.

In definitiva sembrerebbe necessario riprendere il discorso partendo da quel principio di eguaglianza che ci ripetiamo forse senza capirne più le logiche attuali.

Quel principio nasceva da una analisi del sistema economico capitalistico il quale nello sviluppare le logiche necessarie della divisione del lavoro e dovendo inserire anche le risorse finanziarie aveva determinato una divisione dei ruoli sociali un po’ “criticabile”: io ti dico cosa e come devi fare, quanto e quando ti pago e tu ubbidisci. Non è certo la sede per fare la storia delle critiche a questa logica ma è sufficiente ricordare una sintesi del tutto recente, scritta nel 2006: “Il capitalismo è un sistema in evoluzione continua e può essere spinto da noi in una direzione o nell’altra. Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo”.

L’autore non è un estremista di sinistra, anche se oggi potrebbe sembrare tale, ma è una socialista liberale che corrisponde al nome di Sylos Labini. E per questi personaggi la valenza liberale stava nella dimensione etica prima che sociale della politica per cui le libertà politiche cosi dette borghesi quali le liberta di opinione, di stampa, di riunione, ecc. sono integrate nella stessa dotazione necessaria per richiamarsi con coerenza al concetto di eguaglianza, In questo senso come socialisti ci si dovrebbe sentire ben più avanti dello stesso liberalismo che fa fatica a riconosce nella dimensione economica un vincolo sociale alle legittime aspettative di tutti. Anche la configurazione sociale della inclusione/esclusione non è che una versione aggiornata di quella alienazione.

Occorre allora inizialmente verificare se si è o meno tutti d’accordo con il senso di quella sintesi di Sylos sopra richiamata. Si tratta di domandarsi se si è d’accordo su un minimo comune denominatore, all’interno del quale sappiamo che possono coesistere posizioni, accentuazioni e sensibilità diverse ma che, proprio per questo, hanno necessità di ritrovarsi su un aspetto fondamentale. La domanda non è retorica perché da un lato alle volte sembrerebbe che alcuni preferirebbero porre in testa, del tutto legittimamente, altri principi In questo caso andare a vedere il perché la sinistra ha perso la sua credibilità forse sarebbe un esercizio del tutto differente da quello che ci proponiamo noi . Nel nostro caso dovremmo, invece, riconoscere i ritardi della nostra proposta politica rispetto a quel valore, e rispetto alle nuove diseguaglianza o a quelle vecchie ma resesi maggiormente insostenibili con il passare del tempo.

Si potrebbe pensare, ad esempio, ai valori della differenza nella distribuzione della ricchezza che probabilmente non sono peggiori di quelli esistenti dell’ottocento ma che appaiono invece oggi del tutto incredibili e quindi inaccettabili. E se ci si riconosce in quel principio di eguaglianza appare fuori ogni dubbio che la prima traduzione di quel principio sta nel diritto al lavoro. Una volta la sinistra diceva “un pieno e buon lavoro”; ora non dice più nulla . Per pudore? Per incapacità? Perché non ci crede più?. E non si chiude il cerchio di un ragionamento di sinistra fermandosi - ben che vada - alla dimensione della distribuzione della ricchezza ma senza ragionare sui termini della produzione di questa ricchezza. Ma il recupero della “responsabilità pubblica” come motore regolatore e le conseguenti politiche economiche e industriali della sinistra su questo fronte non esistono. Quello che è certo è che ora questa sinistra corre - e con difficoltà - dietro al precariato.

Il paradosso della crisi attuale della sinistra sembrerebbe consistere dunque, niente affatto nel non saper ascoltare la gente, come si ama ripetere - siamo piuttosto tutti vittime dei sondaggi - ma piuttosto nel non saper tradurre quell’ascolto in un percorso di speranza, in una strada, un Progetto, magari difficile ma in grado di dare un senso anche alle difficoltà del presente. E nel saper tradurre quel Progetto in riforme strutturali concrete. L’assenza di questo Progetto lascia gli spazi ai ripieghi come tali necessariamente corporativi o localistici, ma comunque capaci di tradurre sollecitazioni rimaste senza interpreti, che non devono rispondere a coerenze e a basi culturali troppo complesse, ricercando proprio in questi limiti la base del loro successo. Ma lascia anche spazi a quel pragmatismo che potrebbe avere aspetti anche positivi ma che in Italia assume la versione dell’opportunismo e della questione morale. E questo paradosso si esalta perché la cultura liberista ha sviluppato degli “spiriti animali” per cui mentre la sinistra ha operato facendo evolvere la capacità critica della gente ed accrescendo la qualità della domanda sociale, ora la destra su questa crescita ha alimentato uno spirito egoistico e asociale, essenza del liberismo, contraddittorio con quella speranza collettiva che pur resta “naturalmente” una esigenza “nascosta” di tutta la gente. Si sono aperti nuovi orizzonti carichi di incognite - la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, la crisi ambientale, la pace nel modo - ma la gente, vittima di quella cultura liberista, domanda soluzioni qui, ora e per se stessa, anche perché il liberismo ha distrutto, tra l’altro, le sedi fisiche dove le paure singole si possono trasformare in coscienza sociale e in azione collettiva.

La crisi della politica - in Italia ma non solo in Italia - sta proprio nell’assecondare e nell’aver assecondato gli spiriti selvaggi e quindi nella rinuncia ad un progetto alto. Ma poiché gli spiriti selvaggi non sono in grado di risolvere i problemi, così facendo la politica da un lato alimenta la loro inesauribile insoddisfazione, e dall’altra rinuncia al suo vero ruolo diventando vittima di se stessa. Se la sinistra è la prima vittima la responsabilità sta in primo luogo, quindi, nella assenza della sinistra o nel suo essere dimezzata. Questa è la sinistra in crisi .

Occorre allora ripartire da quella crescita culturale e sociale prodotta nel tempo dalla sinistra sapendo che quelle conquiste possono essere rimesse in gioco o essere utilizzate per rigurgiti classisti; se la sinistra non sa proporre, con il sogno della libertà e della eguaglianza, una politica di riforme ulteriori e coerenti, quei ritorni al passato sono nell’ordine delle cose molto possibili.

Di questo e su queste riforme dovremmo discutere con la gente. Ma prima, necessariamente prima, dobbiamo verificare l’adesione ai nostri valori e ricostruire nei comportamenti la nostra credibilità. Queste precondizioni non sono e non possono essere un formalismo, un tributo da pagare per passare oltre. Programmazione e coerenza degli interventi devono essere una traduzione verificabile della esistenza di quelle precondizioni.

Si ripete che dopo la crisi economica internazionale nulla sarà più come prima, lo stesso sviluppo economico-industriale sarà segnato dalla riconversione verde. Ma questa stessa società capitalistica attuale può benissimo gestire questa transizione e i cambiamenti - che non hanno necessariamente un segno univoco - dipenderanno ancora una volta dalla nostra capacità d’analisi e di proposta. Il primo banco di prova di una rinascita della sinistra dovrebbe allora consistere proprio nella capacità di dare un segno a questi cambiamenti. In questa direzione la triplice valenza della sostenibilità economica, sociale e ambientale dello sviluppo dovrà via, via coniugarsi con quelle che sono state a suo tempo le anticipazioni di R. Lombardi intorno ai cambiamenti da indurre nella qualità della domanda.

La crisi attuale della sinistra non mette, dunque, in discussione la sua esistenza ma anzi ne rivaluta quei valori che ne hanno fatto la storia là dove ovviamente questi valori - compresi quelli del rigore intellettuale e morale.- vengono intelligentemente collocati nella società attuale. L’esistenza di una classe dirigente all’altezza delle sfide attuali rappresenta una questione che investe tutte le espressioni sociali del Paese, non solo la politica. In questo campo specifico esiste, tuttavia, una usura e una caduta di credibilità che rappresentano comunque questioni che devono essere risolte e superata con un ricambio anche dei metodi di partecipazione e selezione.

*Associazione LABOUR

Contributo al dibattito pubblicato sul sito www.aprileonline.info


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