giovedì 18 giugno 2009

UNITI PER IL PEGGIO


L’analisi di Raffaele D’Agata, professore universitario di Storia Contemporanea, sul voto in Iran. Un voto che senza dubbio non rispetta il reale ‘volere’ della maggioranza della popolazione, dove la voglia di cambiare dei giovani lascia ben sperare.

di Raffaele D’Agata*

17/06/2009 - Per quanto falsi, i risultati delle elezioni presidenziali iraniane hanno ricevuto dal governo fondamentalista di Israele commenti ufficiali che sono stati, di fatto, tra i più entusiastici a livello internazionale. Per il vice Primo ministro Silvan Shalom, sono state “uno schiaffo in faccia per chi credeva che l’Iran fosse pronto a un reale dialogo con il mondo libero”. Sarebbero state, cioè, uno schiaffo in faccia per Obama, che in fondo lo avrebbe meritato. La mano, evidentemente, gli prudeva da alcuni giorni. Ma uno schiaffo, secondo lo stesso personaggio, si può intendere dato anche a ciascuno dei milioni di manifestanti che sfidano il regime e le sue violenze, dal momento che anche questi sono stati implicitamente invitati a capire il “messaggio chiaro della vittoria di Ahmadinedjad”, cioè che l’attuale politica dell’Iran ha “un ampio sostegno”.

I fondamentalisti, naturalmente, si somigliano . Si somigliano in molte cose, tra cui la loro appassionata preferenza per il peggio. Se qualcosa mai andasse bene contro le loro indiscutibili previsioni, e in modo tale da smentire i loro dogmi, sarebbe finita per loro.

Si può essere certi che anche Ahmadinedjad preferisce Netanyahu, Shalom, e perfino Liberman. Con loro, ha meno difficoltà ad enunciare i suoi allucinanti teoremi,qualunque cosa poi ne consegua. Anche lui, a sua volta, è persuaso che le politiche di costoro hanno “ampio sostegno” in Israele (e la disgrazia di Israele e del mondo è che questa è appunto una delle pochissime cose su cui Ahmadinedjad si trova, di fatto, ad avere ragione).

Naturalmente il voto reale degli iraniani, che è stato un altro, e avrebbe cambiato il regime se non fosse stato rapinato, è stato possibile proprio perché la dottrina neo-con del “cambiamento di regime” come obiettivo di politiche estere interventiste da parte degli Stati Uniti fa parte ormai del museo degli orrori. Coloro che a Washington sognavano di ripeterla in Iran come rimedio all’inferno scatenato in Iraq si trovano per il momento a masticare la loro frustrazione e la loro impotenza. Obama prosegue nella sua strada dichiarando che la sua “preoccupazione” non mette in discussione il “rispetto per la sovranità dell’Iran”, e le sue parole concorrono senza dubbio nell’apertura, che si intravede, di una crepa significativa, sebbene ancora solo di assestamento, negli equilibri della Repubblica islamica di Tehran.

Il popolo iraniano può purtroppo avere bisogno di eroi nei prossimi tempi, anche se la buona notizia è che le sue piazze sono piene di giovani che vogliono prima di tutto vivere, e sembrano ben lontani dal primario desiderio di essere eroi a tutti i costi. Come ben sappiamo, gli eroismi che scavano a fondo, e che sono fecondi di avvenire, sono appunto di questo genere.

*Professore Ordinario di Storia Contemporanea Università di Sassari


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