giovedì 21 maggio 2009

Nuova proposta bipartisan che mortifica i lavoratori


Il ministro Sacconi ha parlato di “salario meritato” riferendosi al disegno di legge stilato da Pd e Pdl. L’espressione cela la volontà di smantellare il contratto nazionale del lavoro, grazie al salario collegato alla produttività dell’impresa.

di Alfonso Gianni

21/05/2009 - Il ministro Sacconi si è lasciato andare ad una pubblica esternazione in favore del nuovo disegno di legge che sta per andare in discussione al Senato sulla partecipazione azionaria dei dipendenti alle imprese e sulle procedure di informazione e di consultazione dei dipendenti.

Come si sa, i disegni di legge sono in realtà due, presentati nella scorsa estate a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Il primo, Castro ed altri, è stato partorito dalle destre, il secondo, Treu ed altri, dal Partito democratico. Tra i due quello più corposo è il secondo che mischia assieme due temi che a mio parere andrebbero distinti, così come lo sono stati nella storia sindacale europea di mezzo secolo almeno: quello del diritto alla informazione e quello della partecipazione azionaria. Ma Sacconi ha particolarmente insistito su un altro punto: quello del salario strettamente collegato alla produttività dell’impresa, che secondo il ministro dovrebbe naturalmente derivare dagli altri due aspetti già citati ed effettivamente contenuti nei due disegni di legge.

Si comprende bene che l’interesse del ministro è concentrato sull’idea fissa della liquidazione del contratto nazionale di lavoro e quindi è del tutto conseguente la sua intenzione di derubricare la questione salariale entro la dimensione puramente aziendale. Il salario diventa quindi non solo una variabile dipendente del profitto, ma questo andrebbe misurato a livello aziendale. Da questo punto di vista la partecipazione azionaria dei lavoratori non è più, come nella più classica delle utopie socialdemocratiche, una forma per quanto di discutibile di democrazia economica, ma una sorta di camicia di forza entro la quale i lavoratori sarebbero posti, per di più in un periodo di crisi. Infatti la loro collocazione partecipativa fornirebbe da sola un argine alle rivendicazioni salariali, una sorta di autocontenimento per sottomettersi alle leggi della competitività della singola impresa.

Infatti il ministro Sacconi usa, nelle sue esternazioni pubbliche, un’espressione rivelatrice. Egli parla di “salario meritato”, il che dovrebbe essere una bestemmia in bocca persino al più moderato dei socialdemocratici. Ma come è noto la militanza socialista del ministro Sacconi è davvero un lontano ricordo. Così il ministro si “dimentica” che il salario percepito non solo è già strameritato, ma è assai meno di quello che dovrebbe essere se non esistesse l’estorsione e l’appropriazione di pluslavoro e di plusvalore da parte del capitale. In sostanza è il profitto che non è meritato, non certo il salario a dovere conquistare il proprio merito legando indissolubilmente le proprie sorti all’incremento della produttività e della competitività di impresa.

Tuttavia, se non si vogliono scomodare i “fondamentali” della teoria marxista sul valore-lavoro, basterebbe gettare un occhio alle recenti rilevazioni dell’Ocse sul bassissimo livello dei salari italiani, per comprendere quanto urti con la realtà la dichiarazione di Sacconi. Il ministro infatti deve essersene accorto e cerca di rovesciare la frittata accusando la miopia della sinistra, cioè la sua resistenza alle teorie partecipative, di essere responsabile dei bassi salari.

Purtroppo qualche elemento di verità c’è. Infatti i bassi salari italiani derivano anche dalla moderazione sindacale praticata in questi ultimi anni e dalla insensibilità della sinistra moderata a questo tema: Sacconi insiste sul carattere bipartisan del progetto. In effetti il disegno di legge Treu appare un cavallo di Troia in questa direzione. Confonde due temi, l’informazione e la partecipazione azionaria alle imprese. Il primo è fondamentale da ottenere: serve infatti a ridurre quelle “asimmetrie informative” che nuocciono al pieno sviluppo di un consapevole conflitto sociale. Il secondo è invece da scartare, specialmente in un quadro di internazionalizzazione delle imprese. Infatti in questo modo si getterebbero le premesse per contrapporre strati di classe operaia ad un’altra. Già lo si intravede nella questione Fiat-Opel. Ma in questo caso è sempre possibile che tra le organizzazioni sindacali si trovino accordi soddisfacenti. Ma questo non avverrebbe per un’azienda che ha articolazioni produttive in paesi dove non c’è o non è libera l’organizzazione sindacale. In quel caso l’interesse dei dipendenti della casa madre potrebbe facilmente entrare in conflitto con quelli delle sedi periferiche, ad esempio nel corso di processi di riposizionamento internazionale o di taglio dei cosiddetti rami secchi. La democrazia economica si rovescerebbe così nel suo contrario. Nella creazione di una moderna aristocrazia operaia , nella riproposizione in forma globalizzata di un nuovo corporativismo.

La relazione sui due disegni di legge è affidata a Pietro Ichino. Varrà quindi la pena di tornare sull’argomento quando i contorni della proposta che piace tanto a Sacconi verranno ulteriormente precisati.


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